Utrecht, il trattato che ridisegnò l’Europa

Utrecht, il trattato che ridisegnò l’Europa.

La morte senza eredi di Carlo II, l’ultimo Asburgo di Spagna, il 1° novembre 1700, aprì la questione della successione al trono e del destino dei territori della corona di Madrid posseduti in Europa e oltre Atlantico. Il testamento del sovrano designò come erede Filippo d’Angiò, nipote di Luigi XIV, profilando, nonostante la clausola dell’impossibilità di unire la corona di Spagna e quella di Francia, l’opportunità di un’egemonia dei Borbone francesi sull’Europa. Nella vicenda avrebbe avuto parte non trascurabile anche il papato con il nuovo pontefice Clemente XI, salito al soglio da otto giorni. Il papa, nonostante i buoni propositi pacificatori, fornendo al nuovo re spagnolo grandi risorse provenienti dai beni ecclesiastici, avrebbe incrinato la sua posizione di apparente neutralità sulla successione e avrebbe travolto lo stato pontificio nella guerra iniziata il 15 maggio 1702.

Austria, Inghilterra e Paesi Bassi si coalizzarono, con il Palatinato, l’Hannover e la Prussia, contro la Francia che, a sua volta, poteva contare sull’appoggio del Portogallo, del duca di Savoia Vittorio Amedeo II e degli elettori di Colonia e Baviera, iniziando un nuovo conflitto che mise in moto eserciti più numerosi di ogni altra battaglia del secolo precedente, impegnò sui principali fronti più di 600mila uomini contemporaneamente e mostrò subito un evidente squilibrio di forze a vantaggio della coalizione anglo-austro-olandese.

I vari attacchi alla Spagna sia dalla terra sia dal mare e il separatismo delle sue province giocarono in modo efficace contro Filippo d’Angiò, nel frattempo insediatosi a Madrid con il titolo di Filippo V. Questi, tuttavia, riuscì a farsi accettare dalla maggior parte dei suoi sudditi e a sottomettere le province ribelli. Nella coalizione antifrancese iniziavano, però, ad apparire le prime divisioni: le rivalità commerciali tra inglesi e olandesi mostravano sempre più il loro peso e il governo inglese accettò l’ipotesi di una divisione che lasciasse a Filippo la corona spagnola con la rinuncia perpetua ai suoi diritti su quella di Francia.

In questo panorama, un ruolo importante, specie in relazione al futuro del Mezzogiorno italiano, sarebbe stato svolto nel piccolo ducato di Parma e Piacenza. Qui il duca Francesco Farnese tentò invano di restare neutrale rispetto alla guerra di successione, cedendo alla fine alla pressione degli eserciti stranieri che avevano trasformato la Pianura Padana nel teatro dei loro scontri. Infatti, contro l’invasione da parte delle truppe imperiali del principe Eugenio di Savoia, nel 1702 egli chiese aiuto a Clemente XI, che gli inviò le sue milizie di occupazione, considerando sotto la sua influenza quel territorio. A poco servì, visto che sette anni dopo le città del ducato sarebbero diventate feudi imperiali.

Un momento fondamentale nel quadro degli equilibri europei e mediterranei di lungo periodo si ebbe nel 1704, con l’occupazione britannica della rocca di Gibilterra, la porta del Mediterraneo, che permise alle potenze coalizzate di assicurarsi un accesso facile al Mare Interno. Mentre l’Inghilterra prendeva le Baleari e la Sardegna, l’arciduca Carlo d’Asburgo entrava a Madrid (1706), ma ne era presto ricacciato, e gli austriaci si insediavano a Napoli l’anno seguente, interrompendo dopo due secoli la dominazione spagnola nel regno.

La Francia, invece, attraversata da malcontento, carestie e sommosse e con un elevato debito pubblico, si dispose a trattative di pace che prevedevano la rinuncia alla corona spagnola. Nel 1711, dopo la morte dell’imperatore Giuseppe I d’Asburgo, il trono viennese passò al fratello Carlo VI, con il quale l’egemonia in Europa si sarebbe realizzata all’insegna dell’aquila imperiale asburgica.

Utrecht e i nuovi equilibri europei

Il Te Deum e il Jubilate Deum di George Frideric Haendel furono le due composizioni sacre che nel 1713 diedero una colonna sonora alla pace di Utrecht, dove, dopo un primo trattato concluso tra Francia e Inghilterra, e un secondo firmato l’anno seguente a Rastadt tra la Francia e l’imperatore asburgico, il conflitto fu risolto con il riconoscimento a Filippo V dei suoi diritti sulla Spagna e sul suo impero coloniale e con la rinuncia in perpetuo a rivendicarne sul trono francese. Per l’occasione si coniò una medaglia con il motto Spes felicitatis orbis, pax ultrajuctensis (La pace di Utrecht, speranza di felicità per il mondo intero) raffigurante Astrea, la stella fanciulla che con un paio di bilance e una corona di stelle distribuiva pace, giustizia e libertà, incarnando i principi scaturiti dal congresso: legittimità, equilibrio di potere e compensazione.

Tuttavia, a uscire vittoriosa fu l’Inghilterra che, oltre a conquistare domini nell’America settentrionale a spese della Francia, nel Mediterraneo ratificò la presa di Gibilterra e di Minorca a spese della Spagna. La Francia rinunciò a ogni pretesa sulla Spagna e all’Austria fu attribuito il Belgio spagnolo. Anche la geografia politica dell’Italia variò il suo aspetto: il ducato di Milano, la Sardegna e lo stato dei Presidi, oltre al già acquisito regno di Napoli, passarono dalla Spagna all’Austria; Vittorio Amedeo II di Savoia, oltre a ulteriori acquisizioni in Piemonte, ottenne il regno di Sicilia, mentre l’elettore del Brandeburgo, Federico I, fu riconosciuto re di Prussia e si garantì territori nella zona renana. Egli riunì tutti i possedimenti della famiglia Hohenzollern in una formazione centralizzata, anche se geograficamente non compatta, dando inizio a un’energica crescita dello stato prussiano.

Il suo successore, Federico Guglielmo I, rendendo il Paese una “universale caserma prussiana” e consolidandolo gettò le basi per quella che, dopo il 1740, con Federico II, sarebbe diventata una delle principali potenze europee. Il grande sconfitto al congresso fu, invece, Clemente XI, che con la sua politica convenzionale e la mancanza di esperienza internazionale non riuscì a influenzare la lotta per l’egemonia europea e fu completamente emarginato dalle trattative condotte a Utrecht e nemmeno rappresentato a Rastadt, l’anno dopo.

Intanto Filippo V, pur avendo trovato la Spagna avvilita nell’industria e nel commercio e con una flotta in pessime condizioni, aveva guadagnato la fiducia del popolo riordinando le finanze e tentando di unificarla secondo il modello assolutistico, come nessuno dei sovrani asburgici era riuscito a fare in passato. Dopo tutti i tracolli provocati dai predecessori, aveva ristrutturato il sistema fiscale, abolito diversi privilegi della nobiltà e del clero e risollevato la produzione agricola e manifatturiera. Aveva migliorato e riorganizzato personalmente l’esercito, con l’introduzione della divisa e della baionetta e del sistema a schiera e a battaglioni, rinforzato il corpo dell’artiglieria, riordinato le scuole militari, riorganizzato la marina, i nuovi arsenali e le scuole navali.

La Napoli austriaca

Senza spargimenti di sangue, il 7 luglio 1707 gli austriaci erano entrati a Napoli e vi sarebbero rimasti fino al 1734, anno dell’occupazione del regno da parte di Carlo di Borbone. Fu solamente dopo la fine della guerra di successione spagnola che gli Asburgo cercarono di intervenire concretamente nella vita economica del Paese, stremato da un conflitto che si era rivelato molto costoso. I cambiamenti più importanti non riguardarono né le classi privilegiate della società (nobiltà e clero), né l’inquadramento del regno nella politica e nell’economia internazionale, che continuò a essere relativa e in gran parte dipendente.

Mutamenti significativi si produssero, invece, nell’affermazione del ceto civile e professionale come classe di governo e nella cultura giurisdizionalistica, incline ad arginare l’interferenza ecclesiastica nella vita dello stato oltre che i privilegi e le immunità del clero. Carlo VI d’Asburgo avviò una serie di riforme che, pur senza godere del consenso sociale necessario, nei primi due decenni del settecento costituirono le basi della trasformazione politica e culturale avvenuta nell’epoca dei Lumi.

La creazione di un banco nazionale e di una giunta di commercio si unì a una ripresa economica e finanziaria basata su programmi di sviluppo, a lunga scadenza, relativi all’incremento delle manifatture del regno, all’interesse per le esigenze portuali del sud Italia, all’ampliamento dell’area commerciale del Paese con progetti e trattati di commercio, alla crescita della marineria, militare e mercantile, e alla cura del servizio postale. Dal 1729 fino al termine della dominazione austriaca il regno fu caratterizzato da un lato dai preparativi bellici e, dall’altro, dall’interruzione dei programmi avviati in passato, con la fine di quel moderato risveglio economico degli anni venti del secolo, portato avanti da Vienna.

Dopo il 1713 vi era stata anche una forte ripresa della vita intellettuale napoletana e fu in questo periodo che filosofi, storici e giuristi come Giambattista Vico e Pietro Giannone rappresentarono il segno di un sapere vivo e coraggioso alla base di una città che sarebbe divenuta protagonista della rivoluzione culturale e illuministica nel corso della seconda metà del secolo.

Per gli Asburgo il possesso della Sicilia e del regno aveva significato il rafforzamento dell’alleanza con l’Inghilterra, che con la sua egemonia mediterranea costituiva l’unica potenza in grado di tutelare l’Austria da qualsiasi tentativo della Spagna. Al termine delle trattative di Utrecht non era cambiato solo il profilo del Mezzogiorno italiano, ma si era delineato anche un nuovo quadro di tutta la penisola, di cui Austria e Piemonte erano diventati i principali soggetti.

Le molteplici Italie

Per quasi vent’anni e fino allo scoppio, sempre dovuto a motivi dinastici, della guerra di successione polacca (1733), l’Italia sarebbe stata al centro del sistema dell’equilibrio europeo e teatro di spartizioni tra Spagna e Austria, arbitro l’Inghilterra. La sua politica si sarebbe decisa fuori dalla penisola, nelle capitali europee, e i suoi stati avrebbero dovuto subirne le regole. Anche se la pace aveva messo un freno alle ambizioni prima della Francia e poi dell’Austria, il segno tangibile che il 1713 non aveva rappresentato la ricostituzione di una nuova stabilità europea fu il dare inizio, da parte della Spagna, a una crisi che minacciò di coinvolgere l’Europa in un altro scontro.

Nel tentativo di riprendere i territori perduti durante la Guerra di successione, nel 1717 Filippo V inviò due squadre navali in Sardegna, riconquistando l’isola che nel corso del conflitto era passata in mano agli Asburgo. L’anno seguente invase la Sicilia, ma senza risultati grazie all’intervento della quadruplice alleanza tra impero asburgico, Inghilterra, Francia e Paesi Bassi, che costrinse Vittorio Amedeo II di Savoia a cederla all’Austria in cambio della Sardegna.

Mentre l’esperienza sabauda non aveva lasciato tracce consistenti nella storia siciliana, in Piemonte i Savoia cercarono di organizzare lo stato nel modello assolutistico realizzato in Francia da Luigi XIV, con un’azione efficace nel campo del fisco, del regime feudale, delle immunità ecclesiastiche, della codificazione giuridica e della scuola. Così, la politica abile del sovrano riuscì a inserire la sua piccola potenza nel gioco dell’equilibrio europeo.

Anche nella Milano austriaca furono promosse riforme, tra cui l’istituzione di un catasto per la ridistribuzione dei carichi fiscali, che, come per Napoli, costituirono le basi del rinnovamento politico e culturale illuminista. L’altra parte dell’Italia era rappresentata dalle repubbliche di Venezia, Genova e Lucca, dagli Estensi a Modena e dalla corte pontificia, dove Clemente XI era occupato più a difendere i privilegi ecclesiastici nei diversi stati che a impegnarsi nella diplomazia internazionale.

La politica della duchessa di Parma

Dalla Spagna, nel frattempo, Elisabetta Farnese, seconda moglie di Filippo V, con l’aiuto di consiglieri come José Patino, Jean Orry e Giulio Alberoni si adoperava per consolidare la presenza borbonica nella Penisola e procurarsi le risorse necessarie, soprattutto di denaro e di navi, per i suoi obiettivi. «Consumata nelle arti più fini di regnare», la duchessa diresse le ambizioni sue, della Spagna e dei due figli, Carlo e Filippo.

Nel 1725, avviando un’azione diplomatica per rivendicare i possessi ereditari di Parma e Piacenza e il diritto di successione sul granducato di Toscana, alla morte senza eredi maschi dell’ultimo dei Medici, Gian Gastone, si alleò con il suo nemico austriaco. Quattro anni dopo, però, stipulò il trattato di Siviglia con l’Inghilterra e la Francia, che, alla morte dell’ultimo Farnese duca di Parma, appoggiarono l’ingresso di suo figlio Carlo nel ducato (1731).

Trascinando la Spagna nelle guerre di successione polacca e austriaca, nel 1734 ottenne per quest’ultimo i regni di Napoli e di Sicilia e per Filippo il ducato di Parma e Piacenza. I suoi obiettivi dinastici saranno portati avanti fino alla morte di suo marito (1746), quando cesserà di avere mire territoriali sull’Italia, determinando un cambiamento radicale nella politica estera spagnola.

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